Bosa. In pericolo i dipinti di Emilio Scherer nella cupola della Cattedrale.

La relazione del ricercatore Marco Antonio Scanu

9 aprile 2015 | Alert
Pubblichiamo la relazione dello studioso e ricercatore Marco Antonio Scanu "Ricordando Emilio Scherer e le sue pitture nella cattedrale di Bosa." "Monsignor Eugenio Cano in nota all'Elogio in morte del Sommo Pontefice Pio IX il Grande, pronunciato il 28 marzo 1878 sotto le volte della cattedrale di Bosa, oltre a descrivere un'opera di Emilio Scherer a carattere effimero (un gigantesco catafalco, alto 6 metri, dipinto su telai mobili e innalzato al centro della navata in segno di solenne partecipazione al lutto) si dilungava in descrizioni minuziose delle pitture realizzate e appena concluse da questo stesso artista nel presbiterio e nella cupola della chiesa, comprese le tempere su tela ornanti l'organo a canne situato sulla cantoria che sovrasta tuttora la bussola d'ingresso. La dettagliata descrizione del vescovo veniva intessuta - secondo i suoi modi consueti - di citazioni scritturali, con solenne ritmo del discorrere, mesto per la circostanza della morte del pontefice ma sprizzante entusiasmo per l'opera d'arte imponente di cui fu deciso sostenitore. Il primo intervento dello Scherer fu nella cupola, alta circa 35 metri, dove dipinse il Paradiso dantesco, creando una prospettiva illusoria, come se attraverso la volta si vedesse il cielo libero. In Scherer era vivo il ricordo delle cupole del Correggio a Parma, dove il pittore nacque nel 1845: non appaia un termine di paragone sproporzionato, dato che gli insegnamenti che egli apprese presso l'Accademia di quella città fondavano la loro prassi didattica sui grandi esempi del Rinascimento italiano, e in primis sullo studio di Raffaello e di Correggio. Tanto più che Correggio, in tutte le sue più ricche e variate manifestazioni, è fra le gemme più preziose di quella stessa città emiliana, dove Emilio visse almeno fino al 1872. Peraltro, nei personaggi che affollano la cupola, poco resta della nudità carnale del grande pittore cinquecentesco: esse rimandano piuttosto, per levità ed eleganza, alle figure di Francesco Scaramuzza, insegnante e direttore dell'Accademia di Belle Arti di Parma negli anni in cui vi studiò lo Scherer. Di Scaramuzza sono celebri l'illustrazione della Divina Commedia e alcune Scene dantesche della Biblioteca Palatina, cui il nostro pittore parrebbe riferirsi, quanto meno per le tematiche prescelte. Nonostante la convenzionalità dello stile, la cupola della cattedrale di Bosa è un unicum per la Sardegna, quanto a dimensioni e ricchezza di raffigurazioni. La bellezza che si rivela ancora oggi agli occhi dell'osservatore giustifica lo stupore con cui la descriveva monsignor Cano: tuttoché la cupola sia ottagona, pure il pittore, da vero artista, ha saputo disegnare le linee in modo tanto ben distribuite, che fatti scomparire gli spigoli, ti presenta una cupola rotonda. Avete mai letto e studiato i tre ultimi Canti del Paradiso del Divino Poema? Io vi ho detto in due parole tutto quanto trovasi nella cupola di Bosa... Dalla Gloria di colui che tutto move, alla Vergine Madre, alle Sfere, alle Rose ed alle Danze degli Spiriti celesti, ed al Giardino luminoso dei Santi e Sante... E' il trionfo del neorinascimento a basso costo di cui amò circondarsi monsignor Cano, novello mecenate d'altri tempi; e forse qui c'è pure l'aspirazione ad una certa grandeur da parte della borghesia bosana, allora fra i protagonisti di maggior successo dell'imprenditoria isolana. L'esistenza di queste pitture balzò tristemente agli 'onori' della cronaca quando due rare e lievi scosse sismiche, avvertite in Sardegna il 26 aprile 2000, causarono la rovina di parte del dipinto. Avvenne così che il 13 maggio successivo, al termine della funzione vespertina, una porzione considerevole degli intonaci cadde sull'altar maggiore, pochi minuti dopo il rientro di chierichetti e parroco in sagrestia. Dopo mille difficoltà e nuovi danni alla cupola e all'abside, nell'ottobre di quell'anno si giunse ad un primo intervento di consolidamento e, l'anno successivo, si procedette - fra agosto e dicembre - ad un restauro operato da un'equipe guidata dalla restauratrice Donatella Pitzalis. Fra i dati tecnici emersi, la certezza (di cui era inutile dubitare anche in precedenza) che non di affreschi si trattasse ma di tempere murali, tecnica utilizzata dal pittore, del resto, in tutta la sua produzione su muro. Si scoprì inoltre la data 1877, scritta, assieme con la firma, sul volume retto dalla Santa Caterina da Siena, in omaggio alla santa di cui portava il nome la madre del pittore. Allora fu possibile un'attenta analisi autoptica dei procedimenti adottati dall'artista che - secondo quanto relazionato dalla restauratrice - si caratterizzano per l'utilizzo di velature sovrapposte e trasparenti e fluide. Lo spessore della pellicola pittorica è infatti molto sottile anche nei punti in cui la sovrapposizione delle pennellate, come ad esempio nelle lumeggiature dei volti e dei panneggi, raggiunge un numero elevato di strati... Sull'intonachino il pittore traccia con veloci e sicure pennellate il disegno preparatorio. Tale disegno è ben visibile in corrispondenza di alcune figure quasi completamente dilavate da infiltrazioni d'acqua..., ed è schizzato velocemente a mano libera con tempera rossa e nera, evidenziando estreme capacità grafiche da parte dell'artista, che procede poi a campire per grandi zone, con i colori di base degli sfondi. Nonostante le grandi lacune presenti nella cupola, le superfici più danneggiate erano invece nella conca del catino absidale dove è raffigurata una Veduta di Bosa con i santi patroni Emilio e Priamo, sovrastata da l'Immacolata in gloria fra gli angeli cantori e i musici, che tradisce ancora il ricordo della pittura rinascimentale emiliana, ma accoppiata a un'invenzione che è tutta schereriana e che coglie da quasi 140 anni, certamente, il carattere più autentico del panorama bosano: una veduta dalla sponda sinistra del fiume Temo, cui si sarebbe ispirato in più occasioni anche Giovanni Nurchi, amico di Scherer e fotografo più che dilettante (è questo l'attributo che accompagnava il suo nome sul biglietto da visita), operante a Bosa dal 1895. L'interesse di Scherer per la fotografia, evidentissimo anche nell'abside della cattedrale, è l'interesse di una folta schiera di artisti dell'Ottocento, alcuni dei quali esperirono di persona la nuova arte, utilizzandola in funzione della pittura ma, spesso, attribuendole già un ruolo autonomo (forse fra i meno noti, mi viene in mente un altro parmense e contemporaneo del nostro, Roberto Guastalla, assimilabile allo Scherer anche per le sue forti passioni orientaliste). La Bosa dell'abside della cattedrale è la visione 'dal basso' della città 'mitizzata', un'immagine fortemente connotativa, in cui l'apparizione della Vergine determina la catarsi e, di conseguenza, la consacrazione del luogo raffigurato: il castello medievale attorniato dalle abitazioni della Costa, le case schierate a ridosso del fiume attraversato dal ponte di trachite rossa, le colline in lontananza baciate dal sole del mattino... E' questo un panorama 'fissato' per sempre, che fa ormai parte dell'immaginario collettivo dei bosani e di quanti visitino Bosa, cogliendone l'essenza, per così dire iconologica. Mi piace tornare su questi passi familiari, a dodici anni dall'uscita del volume monografico che consegnava l'opera di Scherer alla storia dell'arte (M. A. Scanu, Emilio Scherer, Nuoro 2002) e che per la prima volta univa la tradizione degli studi parmensi sui fratelli Scherer, con quanto si poteva acquisire sull'attività di Emilio in Sardegna. A Bosa egli divenne 'il' pittore, quello capace di trasformare la realtà in immagini, nel contesto di un'umanità affascinata dai suoi colori luminosi e non ancora avvezza all'ubriacatura visiva che caratterizza i nostri tempi. Nello Scherer dei trascorsi bosani è ancora chiara la propensione alla decorazione scenografica, strettamente legata al ruolo che assunse il teatro nella Parma ducale e post-unitaria, all'influsso da parte dei suoi insegnanti presso l'Accademia, come lo scenografo Girolamo Magnani, il preferito da Giuseppe Verdi, del quale Emilio avrebbe continuato a 'ricordare', anche nell'ultimo periodo di più stanca ripetizione di repertori decorativi nei soffitti delle private abitazioni di Bosa, la passione per gli ornati floreali e per il paesaggio notturno. L'inclinazione verso l'effimero scenografico lo avrebbe segnato nel tempo in varie forme: dalla costruzione di catafalchi all'allestimento di carri allegorici in occasione del celebre carnevale bosano, fino alla realizzazione di sagome dipinte per le chiese che ricreano illusoriamente la tridimensionalità delle statue e di cortine dipinte per l'allestimento del 'sepolcro' durante la Settimana Santa. Nel 1871 fu la stessa Accademia parmense a consentire a Scherer alcuni mesi di 'approfondimento' a Napoli presso l'allora venerato Domenico Morelli, da cui avrebbe acquisito sopratutto il valore del colore, inteso come elemento capace di ricreare la realtà, sulla parete o sulla tela. Dopo una serie di viaggi in Italia e all'Estero, con primi approcci - credo - anche con la costa mediterranea dell'Africa, lo Scherer giunse in Sardegna: prima a Cagliari e poi a Bosa, al seguito di monsignor Cano, dal 1872 vescovo di questa città ma profondamente legato anche alla Basilica della Madonna della Neve di Cuglieri, laddove si conservano le prime prove del nostro pittore. Dopo importanti opere decorative a carattere sacro presso le chiese bosane, l'artista si trasferì in Tunisia, permanendovi - ma con rimpatri in Sardegna e a Parma - fra il 1879 e il 1887. Le piccole tele orientaliste dipinte da Scherer in Africa sono sparse in varie collezioni private bosane o emigrate altrove, sopratutto dopo la dispersione di quanto possedeva la nuora del pittore, la sig.ra Maria Contini, che ebbi modo di conoscere durante le fasi di catalogazione del corpus. Molte di queste pitture 'fotografano' dal vero le strade polverose di Tunisi e della Goletta. Alle povere costruzioni intonacate d'un bianco abbacinante fa da sfondo il cielo terso, d'un turchese acceso e profondo, su cui si stagliano i minareti arabescati. La realtà vi è tradotta per macchie, con contrasti di luce e d'ombra che declinano il colore secondo l'esempio di pittori quali Alberto Pasini, un grande esempio per tutta quella generazione d'artisti affascinati dal vicino 'Oriente': è lo stesso piccolo '800 di cui parla la critica a proposito di Emilio Salgari o dell'operetta a tematica esotica che impazzava nei teatri di provincia di tutta Europa... Dal 1887 Bosa fu per Emilio Scherer un porto di tranquillità ma anche un'isola nell'isola, determinando una sorta di arresa dell'artista, intuibile nella sconcertante incostanza e nel variare dell'impegno adoperato, che talvolta scade in un mestiere ai confini con la mediocrità, sia nelle opere di decorazione murale così come nei ritratti via via commissionatigli dalla locale borghesia. Bosa: luogo d'attrazione e luogo degli affetti. Nel 1890 sposò la bosana Maria Masala; qui crebbe il suo unico figlio Edgard, quel 'dottor Scherer' che i bosani più anziani confondono nei ricordi offuscati dal tempo con il padre pittore.... Ma Bosa fu pure un esilio dal mondo, e da quel suo 'viaggiare' che divenne quasi il paradigma preferito nella sua arte. Pur tuttavia un esilio dorato, in questo luogo particolare, sospeso fra mare e monti, fra cielo e terra, dove la natura della Sardegna da il meglio di sé e dove il 'romantico' pittore visse fino alla fine dei suoi giorni nel 1924."
 
Al testo che precede questa nota, che ricompone le tre puntate pubblicate sulla rivista Dialogo (nell'agosto 2014) Marco Antonio Scanu aggiunge una serie di considerazioni sullo stato dei dipinti di Emilio Scherer nella Cattedrale di Bosa. "E' chiaro a tutti come la presenza di Emilio Scherer a Bosa, a prescindere dal pur significativo valore estetico, assuma importanza, a maggior ragione, dal punto di vista identitario. Scherer 'reinventa' il punto di vista sulla città e contribuisce all'aggiornamento culturale dei bosani, in termini che travalicano abbondantemente i dati meramente estetici. Lo studio che ebbi la fortuna di compiere e che ottiene sempre nuovi aggiornamenti - anche nel mio recente contributo in seno al Convegno Bosa. La città e il suo territorio dall'età antica al mondo contemporaneo - ha evidenziato il ruolo che il pittore impersonò, sopratutto agli occhi della nascente borghesia imprenditoriale, che nelle decorazioni e nei ritratti del parmense ebbe modo di riflettere tutte le sue più alte aspirazioni. Abbiamo coscienza del fatto che il clima marino e fluviale del capoluogo della Planargia, di per sé, non ha certamente favorito la conservazione di una gran parte delle opere di decorazione muraria, a causa della tecnica utilizzata. E' noto altresì il come - laddove non hanno agito il clima e l'umidità - per scarsa sensibilità e per imperizia si è proceduto in tante occasioni alla loro distruzione o alla maldestra ridipintura. Sappiamo anche che, per cause in gran parte legate all'ignavia delle istituzioni e all'egoismo dei privati, alla morte della nuora del pittore si è proceduto alla dispersione della sua fondamentale collezione. Oggi è impresa ardua e in gran parte impossibile porre rimedio a questi errori. 
Tuttavia, il caso più vergognoso e incomprensibile è costituito dal progressivo e orrendo degrado subito nell'ultimo decennio dalla cupola e dall'abside della cattedrale di Bosa, che ha completamente annullato gli interventi di restauro del 2001. Ironia della sorte, proprio nel momento in cui quelle decorazioni hanno la possibilità di essere degnamente illuminate, grazie ad un intervento del locale Rotary Club, la condizione in cui versano mostra tutta l'incoscienza di coloro (istituzioni laiche e religiose) a cui il passato le ha tramandate. Una parte delle figure, divorate dalle efflorescenze saline e da diffuse macchie di muffa, temo sia ben instradata sulla via della definitiva perdita. Il mio è un appello a chiunque sia in grado di valutare il peso identitario e ideale che il catino absidale della cattedrale di Bosa riveste per la città, per i suoi abitanti e per i suoi numerosi visitatori. Da tempo l'intero edificio versa in condizioni pietose e non mi capacito del come si possa violare in modo tanto gretto l'eredità lasciataci dai nostri avi. Solo assieme, ognuno impegnato nell'ambito delle proprie possibilità, ci si potrà opporre a tanto degrado, ma è adesso il momento di agire e non si può più rimandare al domani. Anche in questi frangenti si costruisce la collocazione di Bosa in qualità di centro propulsore del turismo sulla costa occidentale della Sardegna. Non ci si trinceri dietro l'orgoglio ferito di chi vede nella precarietà delle chiese di Bosa (e ho ben presenti anche le condizioni di quella di Santa Croce) l'abbandono da parte delle istituzioni ecclesiastiche. C'è anche questa componente, ma il ruolo che ha Bosa e che ha avuto con il suo prestigioso passato non potrà mai essere adombrato dalle dinamiche istituzionali. Io parlo dal basso delle mie competenze scientifiche, ma chi ha la gestione concreta del denaro pubblico si muova. Chi cerca trova, e chi cerca col cuore incontra anche l'affetto delle persone. Sopratutto tutti i bosani, quelli mossi dall'orgoglio di vivere in un luogo unico al mondo - perché la natura lo ha determinato a priori e perché gli artisti lo hanno immortalato nelle loro opere - non trascurino ulteriormente il massimo tempio della città. Che la rinascita della cattedrale di Bosa possa essere un obiettivo per tutti, al di là di ogni credo religioso e di ogni opinione di parte, ma in funzione dell'universale umanesimo che ha fatto, sempre, di Bosa un riferimento imprescindibile nella storia della nostra Isola." Nelle ultime settimane diversi gli articoli sul tema. Il primo del 25 marzo http://lanuovasardegna.gelocal.it/oristano/cronaca/2015/03/25/news/a-rischio-gli-affreschi-di-scherer-1.11117400 e il secondo del 2 aprile http://lanuovasardegna.gelocal.it/oristano/cronaca/2015/04/02/news/il-degrado-dei-dipinti-in-cattedrale-il-silenzio-della-curia-1.11167220
 
 
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