Bosa. Il messaggio del Vescovo di Alghero-Bosa Mauro Maria Morfino per l'Avvento e il Natale

Il 13 dicembre l'apertura della Porta Santa nella Cattedrale di Bosa, in occasione del Giubileo

7 dicembre 2015 | News
Sorelle e fratelli amati, su tutti e su ciascuno sia la pace, quella che il mondo non può né dare, né rubare. Quella Pace che è il Signore Gesù, il sempre Veniente. Vi faccio giungere questo saluto e augurio all’inizio dell’Avvento che ci prepara al Natale del Signore, quasi sulla soglia benedetta e attesa del Giubileo della Misericordia. Viviamo un “tempo misto”, abitato da luci che accendono la speranza, come la mobilitazione di tantissime forze umanamente sane, buone, vive capace di accogliere e curare profughi e disperati; il recente Sinodo sulla Famiglia abitato da diverse ma fruttuose pluralità; il sinfonico Convegno ecclesiale vissuto a Firenze; il desiderio pungente di Bene, di Vero e di Bello che colgo in tanti, tantissimi, tra noi. Ma, tragicamente, viviamo anche un tempo solcato da sinistri bagliori di sangue e di morte che hanno rapinato della vita centinaia di sorelle e di fratelli qui a due passi da noi. Oltre a quella ormai infinita, muta e urlante processione di donne e uomini in ogni latitudine ingoiati dal buco nero di bombe, fuoco, macerie, fame, malattie, odio, interessi inconfessabili di Stati e di singoli profittatori o da semplice (!) ma mortifera indifferenza. E anche qui tra noi, in questa nostra Chiesa, la mano omicida si è ancora levata contro altri uomini, quasi sgranando un drammatico, interminabile rosario grondante sangue. E ogni omicidio è, sempre, fratricidio. E tremo al pensiero – spero temerario – che qui tra noi sia la mano di un battezzato contro un altro battezzato. Parce Domine! Un tempo, questo mio e nostro, che ci vede morsi da una pensosità dolente ma, soprattutto, dall’insopprimibile aspirazione di un recupero di luce, di forza e di autenticità che non possiamo e non vogliamo disattendere. Parole come cura, disprezzo, dignità, corpo, carne, debolezza, straniero, paura, orgoglio, amicizia e inimicizia si rincorrono nel cuore e premono per essere pacificate tra loro, riannodate, coniugate. Ri-accolte. Un morso lacerante e parole rivali che, nel quarto secolo, hanno spinto due grandi testimoni del Vangelo e vescovi, Gregorio di Nazianzo e Agostino di Ippona, abitatori di un “tempo misto” non meno del nostro, ad alzare lo sguardo verso il Signore Gesù per decifrare la storia che abitavano e per ri-accostare tra loro parole apparentemente incomponibili e riottose. Mi ha riscaldato il cuore rileggerle e così son certo sarà per voi: “Come io fui unito al corpo, non lo so; né so come sono immagine di Dio e mescolato con il fango. Questo corpo, quando è in buona salute, mi fa guerra e, combattuto, mi tormenta; questo corpo lo amo come compagno di schiavitù, ma lo odio come nemico; lo fuggo come compagno di schiavitù, ma lo rispetto come coerede. Lotto per consumarlo, ma in tal modo non posso servirmi del suo aiuto per raggiungere ciò che è bellissimo, poiché so per che cosa sono nato e che devo salire a Dio mediante le opere. Lo tratto con rispetto come un collaboratore e non so come fuggire la ribellione o come non cadere lontano da Dio, oppresso dai ceppi che mi trascinano in basso o che mi trattengono al suolo. È un nemico benevolo e un amico insidioso. Che unione e che inimicizia! Mi prendo cura di ciò che temo e temo ciò che amo; prima di dichiarare guerra, mi riconcilio e prima di fare la pace sono diviso. Qual è la saggezza che devo avere con me? E qual è questo grande mistero? O forse Dio vuole che noi, che siamo parte di lui e discendiamo dall’alto, in questa battaglia volgiamo sempre il nostro sguardo verso di lui, affinché non disprezziamo il Creatore, insuperbiti e gonfi di orgoglio a motivo della nostra dignità, e vuole che la debolezza a noi unita sia un insegnamento alla nostra dignità affinché sappiamo di essere contemporaneamente i più grandi e i più miseri, terreni e celesti, effimeri e immortali, eredi della luce e del fuoco, ma anche dell’oscurità a seconda di dove ci pieghiamo? […] Ora, però – ed è questo che il mio discorso mi ha spinto a dire – mentre sono sconfortato a motivo della mia carne e della mia debolezza rispecchiandomi nelle debolezze altrui, bisogna che curiamo il corpo, fratelli, come un parente e un compagno di servizio. Se infatti l’ho accusato come un nemico a causa delle passioni, lo abbraccio come un amico a causa di colui che ha operato l’unione. E bisogna curare il corpo di quanti ci stanno vicino non meno di quanto ciascuno curi il proprio […] Noi tutti, infatti siamo una sola cosa nel Signore (Rm 12,5): il ricco, il povero, lo schiavo, l’uomo libero, il sano, il malato. E uno solo è il capo di tutti dal quale tutto deriva: Cristo” (Gregorio di Nazianzo, Discorsi 14,6-8). “Dio assunse ciò che non era e rimase ciò che era; venne a noi, uomo, e non si allontanò dal Padre; continuò ad essere ciò che era, ed apparve a noi ciò che siamo noi; l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo. Di lui che rimase presso il Padre ha bisogno l’universo; di lui che volle venire a noi, ha bisogno il parto della Vergine […]. Il Verbo, nato quaggiù dalla madre, consegnò ai secoli questo giorno, lui che, generato dal Padre, creò tutti i secoli. Né quella eterna generazione poté avere madre, né quella temporale ebbe padre. Cristo dunque è nato dal Padre e dalla madre ed è senza padre e senza madre. Dio dal Padre; uomo dalla madre. Dio, senza madre; uomo senza padre. Chi, dunque, narrerà la sua generazione, tanto quella senza tempo, quanto questa senza concorso umano; quella senza inizio, questa senza esempio; quella che non fu mai; questa che non fu né prima né poi; quella, che non ha fine; questa che ha inizio allora? Volle avere un suo giorno, lui senza il cui divino assenso non spunta alcun giorno; e così si inserì nella serie dei nostri anni. Si fece uomo, lui il creatore dell’uomo, per succhiare il seno pur reggendo le stelle; per avere fame, lui che è il pane, per avere sete, lui che è la sorgente; per dormire, lui che è la luce; per affaticarsi nel cammino, lui che è la via; per essere giudicato da giudice mortale, lui il giudice dei vivi e dei morti; per essere condannato dagli ingiusti, lui che è la giustizia; per essere appeso alla croce, lui che è il fondamento; per essere infermo, lui che è la forza; per morire, lui che è la vita” (Agostino di Ippona, Discorso sul Natale, 184,1 e 191,8). Leggendo i due testi mi è venuto spontaneo esclamare: Dio vestito di carne! Abbigliamento sconcertante, look improponibile. Un meticciato che se ci avesse visto pianificatori del dirsi di Dio, avremmo accuratamente evitato perché mescolanza foriera di troppi impicci, fomite di troppo pungente disagio per strenui difensori della divina purezza quali siamo… E mi è spuntato in cuore questo versetto della Scrittura: “Non dimenticate la philoxenìa: alcuni, praticandola, senza saperlo, hanno accolto degli Angeli” (Eb 13,2). Ma in casa mia, in casa nostra, in casa cristiana ancora quanta amnesia della philoxenìa: l’amore per chi è straniero, altro – in qualsiasi modo – è strangolato dall’amnesia del Dio vestito di carne. Smemoratezza di Colui che ha vestito l’assoluta estraneità da sé. La parabola dell’ospitalità lungo il filo dei secoli, va dal divieto di chiedere il nome all’ospite fino all’odierno scippo dell’impronta dell’iride. “Alcuni… senza saperlo… Angeli”. Sotto traccia è indicato Abramo che non è nominato (cf Gn 18,1-16). Nel testo risuona un volutamente anonimo “qualcuno” che, accogliendo la stranierità, gli è dato di incontrare “Angeli”. Gli è dato di incontrare Dio. Questa è la regola vera della vera ospitalità: qualcuno accoglie qualcun altro. Senza biglietto da visita. Un puro atto di fede senza garanzie. Un rischio e, insieme, il manifestarsi di una relazione che può assurgere a rivelazione. Sì, siamo tutti salvati perché ac-colti nella carne del Verbo. Così gentile e così libero da non domandarci il biglietto da visita. “Bisogna curare il corpo di quanti ci stanno vicino” canta Gregorio. Curare il corpo. Curare la carne. Curare il volto. Ap-prezzare chi è altro-da-me, altro-che-è-con-me, altro che consegna me-a-me-stesso. Altro come limes o Altro come limen? Altro come frontiera fortificata, limite invalicabile, estranea ostilità o Altro come soglia che concede passaggio, condizione di rapporto. Rivelazione? Gesù di Nazaret, Cristo e Signore, per noi si è fatto Limen e abbiamo conosciuto il Padre. Come non augurare a me e a tutti voi, permanendo nel Limen, la gioia mai consumata di accogliere ogni relazione come rivelazione? “Non temere, Io sono con te”. È proprio questo che trasforma tutto ed è questo che attendiamo a Natale: che il Signore venga in nostro aiuto rimanendo con noi, tra noi, per noi. Ed è precisamente quello che Egli è stato, è e sarà: “Dio-con-noi”. Essere-con è il desiderio più profondo dell’amore, è la sola cosa che conta: essere con chi amiamo, essere con che ci ama. Tutto il resto è secondario. Non è necessario che le situazioni cambino, purché ci sia la presenza dell’amato. È proprio quello che il Natale del Signore promette e dona. “Volle avere un suo giorno, lui senza il cui divino assenso non spunta alcun giorno” canta Agostino: Egli non cambia le cose, ma vi si mette dentro e allora, poiché c’è Lui, tutto cambia. È tutta la santa liturgia di Avvento e di Natale che ci insegna che Dio non cambia le circostanze esterne ma dona Se stesso, la sua presenza. E quando Lui è presente, tutto cambia. Egli ha voluto mettersi con noi in tutte le nostre situazioni umane. Specialmente in quelle spinose. La certezza intima, di fede, che Gesù è in modo particolare con noi quando la nostra vita è più simile alla sua croce, è sorgente di una forza e di una fiducia straordinarie e allora la gioia illumina anche le situazioni che, altrimenti, sarebbero motivo di desolazione infinita. La frenesia che talvolta ci attanaglia, più o meno tutti, di essere in un altrove, di essere altrimenti, di essere diversamente da dove siamo, da come siamo, da con chi stiamo. E si può avvelenare la vita e spingerci a liquidare il presente (ma con esso la stessa esistenza) come assurdo, come non-luogo e quindi come realtà da cui è necessario emigrare. L’alienazione che ne segue estingue la gioia non solo e non tanto di questo vivere ma, semplicemente, del vivere. Nell’Incarnazione del Verbo, come somma misericordia il Misericordioso Dio ci indica la via dello stare senza fuggire, dell’amare fino all’estremo la propria situazione contingente di vita, svelandoci che lì, proprio lì è nascosto il tesoro e solo lì si incrocia il compimento essenziale di quella manciata di giorni che chiamiamo vita. Il Verbo non l’ha fuggita ma l’ha voluta; non l’ha maledetta ma l’ha amata; non l’ha deprecata ma l’ha vissuta. Il grande Martin Buber nel suo Il cammino dell’uomo, ha una pagina che più “cristiana” è difficile pensare: “C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo dove si trova questo tesoro è il luogo dove ci si trova. La maggior parte di noi giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che non abbiamo assaporato il compimento dell’esistenza, che la nostra vita non è partecipe dell’esistenza autentica, compiuta, che è vissuta per così dire ai margini dell’esistenza autentica. Eppure non cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, da nessun’altra parte, che si trova il tesoro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’esistenza messo alla mia portata […] È sotto la stufa di casa nostra che è sepolto il nostro tesoro”. Un tesoro sotto la stufa di casa. Forse troppo a portata di mano per dargli credito, per goderne, addirittura per vederlo. Certamente troppo a portata di mano per considerarlo tesoro. Il nostro tesoro è il Bambino che nasce a Betlemme avvolto in fasce adagiato nella mangiatoia. Ma fasce e mangiatoia sono segni modesti e disadorni, affatto decorativi e vistosamente inappropriati per una qualsivoglia notorietà. Intrisi di un olezzo troppo umano per raccontare il divino e troppo nostri per essere casa al compimento della nostra stessa esistenza. Fasce e mangiatoia sono Teo-logia: ci parlano di Dio. Meglio: ce lo disvelano. A noi, insaziabili comparse agghindate di effimere pailletes, famelici moltiplicatori di irrinunciabili momenti hollywoodiani. Chi vorrà incontrarlo, dovrà imparare a riconoscerlo in tutte quelle fasce lorde e maleodoranti che avvolgono ogni vita; in ogni inarticolato grido, già soffocato dalla sua stessa afonia; in ogni mangiatoia che ha già fattezze sepolcrali. Ai pastori, gli angeli han dato non un segno ma il segno: “un Bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. Quello è l’Amen che sventra ogni indegnità e il “sì” definitivo di Dio alla storia, alle generazioni, ai singoli. Al presente e ad ogni presente. Quel Bambino è l’annunzio bello dei secoli, il suo esserci-per-noi, l’assenso colmo a questo mondo e a questa persona umana, senza ripensamenti. Lui è l’oggi della salvezza, ma solo proponendo incondizionati sponsali al qui e all’ora, solo amoreggiando follemente con la vita che ci è toccata in sorte, la sensatezza dei giorni danzerà con noi. Lì, sotto la stufa di casa, il tesoro tracima e invoca d’essere saccheggiato. Affrettiamoci tutti e insieme, amici e fratelli preziosi. Sarà festa! Grato a ciascuno, fino alla commozione, dell’amore ricevuto, e grato al Padre di ogni dono perfetto, anche dei miei goffi, maldestri, inarticolati tentativi di benevolenza. Un abbraccio caldo dello stesso fuoco che arde sotto la stufa di casa. Padre Mauro Maria
 

L'APERTURA DELLA PORTA SANTA IN CATTEDRALE A BOSA IL 13 DICEMBRE

Dopo l'apertura della Porta Santa nella basilica di San Pietro, cerimonia che apre ufficialmente il Giubileo della Misericordia indetto da Papa Francesco, nella Diocesi di Alghero-Bosa saranno quattro le Porte Sante Giubilari che aprirà il Vescovo Mauro Maria Morfino, nei luoghi individuati come più significativi per fede e tradizione. 

Dopo la funzione in programma ad Alghero alle 11.30, DOMENICA 13 DICEMBRE IL VESCOVO APRIRA' LA PORTA SANTA GIUBILARE A BOSA, NELLA CATTEDRALE DEDICATA A MARIA IMMACOLATA, ALLE ORE 16.30.

Le altre cerimonie sono previste nel Santuario di San Costantino a Sedilo domenica 20 dicembre alle 16.00 ed infine, il primo gennaio 2016 la quarta e ultima Porta Giubilare sarà aperta dal Vescovo nel Santuario di Nostra Signora di Valverde, patrona della Diocesi.

 

LE CAPPELLE DELLA MISERICORDIA 

Nelle tre foranie di Alghero, Bosa e Macomer altra iniziativa è quella della istituzione delle Cappelle della Misericordia. Dove sarà garantito il Sacramento del Perdono, secondo un preciso calendario. L'allestimento è previsto nella Chiesa di San Francesco in Alghero, in quella della Madonna del Carmelo in Bosa e nella parrocchia della Santa Famiglia di Nazareth in Macomer.

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